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Istituto Italiano per gli Studi Filosofici – Napoli – 14 ottobre 2004

Intervento dell’On. Amelia Cortese Ardias

Siamo oggi alla conclusione della Scuola di Liberalismo 2004. Abbiamo ascoltato tredici Lezioni su temi collegati al Liberalismo.
Anche io le ho ascoltate quasi tutte, con interesse e coinvolgimento e in un’atmosfera assai gratificante di partecipazione dei corsisti.
Il tema dominante, dunque, è stato, com’è ovvio, il liberalismo e vorrei ricordare, come disse Bobbio in una sua intervista, il concetto di liberalismo di Croce: un principio morale con cui anche le forze politiche debbono, alla fine, fare i conti per non soccombere.
Voglio soffermarmi pertanto, in questo nostro incontro, su due aspetti della personalità crociana che hanno inciso anche sulle sue scelte di vita e di lavoro: Croce politico e Croce giornalista.
In una lettera ad Einstein, nel luglio 1944, Croce scriveva: “Mi sento oggi conforme ai miei convincimenti e ai miei ideali, impegnato nella politica del mio Paese”.
E in un convegno sulla libertà italiana nella libertà del mondo Croce precisava: “Nessuno meno di me, che ne ho tenacemente difeso nel campo dottrinale l’autonomia e l’originalità, può negare l’ufficio e l’importanza della politica nella vita dei popoli come degli individui. Senza politica nessun proposito, per nobile che sia, giunge alla sua pratica attuazione”.

CROCE politico.
Croce scriveva (Scritti e Discorsi Politici, Vol. I): “Parlare di liberali conservatori e di liberali progressisti è ripigliare un vieux jeu dei radicali e massoni di un tempo, perché i liberali non possono dividersi in destra e sinistra, in conservatori e progressisti, se prima di tutto non convengono tra loro per stabilire e rispettare e far rispettare la libertà.
Dire che la libertà deve essere in funzione di una riforma economica è ripiombare nel materialismo storico e dare ragione al comunismo marxistico che fa dipendere la morale e la politica dall’economia e vilipende la libertà come un prodotto della “borghesia” e del “capitalismo”.
La libertà è necessaria a tutti i partiti, che siano partiti, e cioè riconoscano il diritto all’esistenza degli altri partiti diversi ed opposti.
Partito significa parte in un tutto, e partito unico è contraddizione in termini.
Il futuro Partito liberale -Croce diceva- non respingerà a priori nessuna concepibile riforma economica, ma chiederà che ciascuna venga discussa in condizioni di libertà, e che ciascuna sia adottata quando tecnicamente eseguibile nei tempi, lunghi e circostanze date, cioè non porti per contraccolpo un regresso, ma conduca sempre a quello che è il suo fine supremo: l’elevamento della convivenza sociale, il perpetuo accrescimento dell’attività e libertà umana.

Croce scrive ancora su “La città libera” di Roma il 12 aprile 1945 sul suo rifiuto a che un singolo partito, che sia un partito e non un’accozzaglia, si divida in una destra e una sinistra.
Nel Partito liberale non c’erano una destra, una sinistra e un centro, ma un’unica idea, capace, appunto perchè una e salda, d’infiniti svolgimenti, o applicazioni che si chiamino, nelle questioni particolari, che bisogna trattare una per una, nella loro particolarità, e nelle quali le controversie non sono di destra, di sinistra o di centro, ma di tecnica e di competenza e di saggezza e di momento politico.
Il Partito liberale - come Croce lo intende e lo auspica - ha il suo ufficio e la sua giustificazione nella difesa della libertà contro le violenze che le si fanno o le si minacciano e le insidie che le si tendono. Croce scriveva sui Quaderni della Critica a maggiore chiarimento della sua concezione del costituendo partito: “Per questa ragione esso non può dividersi in una sinistra e in una destra, che sarebbero due partiti non liberali. Naturalmente il Partito liberale esaminerà e discuterà sempre provvedimenti di sinistra e di destra, di progresso e di conservazione, e ne adotterà degli uni e degli altri, e, se così piace, con maggiore frequenza quelli del progresso che quelli della conservazione. Ma non può celare a sè stesso quella verità, che la libertà si garantisce e si salva talora anche con provvedimenti conservatori, come tal’altra con provvedimenti arditi e persino audaci di progresso. Questi esami e queste discussioni, che si chiudono nel quadro anzidetto, sono la vita concreta del Partito liberale, e non c’è nulla di più insulso dell’accusa che il liberalismo, non essendo di un partito solo ma comprendendoli tutti e due, non è un partito. E’ tanto più largo e più umano e, in definitiva, più forte, quanto più è partito di centro. So bene che ripeto cose che ho già detto molte volte. Ma, per consolarmi di questa taccia, gioverà un’altra mia prediletta ripetizione: del detto di Salomone, che sermo opportunus est optimus. E’ ottimo, perchè è la verità.”
A capo del Partito liberale per quattro anni e mezzo, vincendo la riluttanza a scendere nell’agone politico, Croce diventò prima membro della Consulta, eletto deputato all’Assemblea Costituente, confermato poi senatore (in base alla terza disposizione finale della Costituzione che prevedeva, appunto, il ritorno a Palazzo Madama degli ex senatori membri della Consulta o della Costituente), ma si dimise dalla sua carica “perché il Presidente del Partito – egli dice in un discorso di congedo dalla Presidenza – deve dimorare a Roma” e “perché forze giovani prendano i posti e le responsabilità di noi vecchi”. “Ero entrato in politica, e subito sentii che in quel momento non mi era lecito tirarmi indietro e dovevo ubbidire ad una sorta di servizio militare”.
“Mi rendevo conto di avere in me, nella opinione di molti, una debolezza che era nella mia reputazione stessa di filosofo, di storico e di letterato; e dicendo che me ne rendo conto ho già ammesso che ha la sua parte di vero, ma è anche unilaterale ed esagerata. Se ad ogni uomo che ha una sua specialità di lavoro si volesse negare capacità politica, non so a quali stremi si ridurrebbe la classe politica. E per di più c’è quello che si chiama il senno o il buon senso che gli fa conoscere di volta in volta ciò che può e deve fare”. E qui, un aneddoto. Croce racconta “Nel 1920 Ministro dell’istruzione, a Ministero Giolitti – avvertivo una vaga diffidenza di lui verso di me – perché gli avevano detto che io ero un “filosofo”. Sennonché intervenendo in Consiglio dei Ministri non parlando mai di “filosofia” ma ragionando alla buona i provvedimenti che proponevo, o non trascurando quelli dei colleghi e dimostrandomi molto vigile delle finanze dello Stato, accadde che Giolitti un giorno si chinò a un collega e mormorò: “Ma questo filosofo ha molto buon senso!” E questo riconoscimento mi diè qualche orgoglio. Possiamo affermare in buona coscienza di aver esercitato in questi anni la nostra parte di efficacia nella politica italiana e a ricordare che il vecchio Times ha riconosciuto ciò col definire il nostro “un piccolo partito ma efficiente”. Ed io accetto entrambi gli aggettivi perché ho avuto sempre simpatia per il piccolo David, che preferisco al grosso Golia”.

Addio alla Presidenza.
Ecco il saluto di Croce al Congresso del PLI. “Con il mio ritiro dall’onore e dalla soddisfazione di essere il Presidente del Partito liberale depongo bensì la presidenza ma non mi distacco da voi, che è di gratitudine per la fiducia che avete avuta in me, per l’intelligenza con la quale avete collaborato con me al comune ideale, voi miei compagni nel periodo clandestino di Napoli, che primi mi veniste a cercare a Sorrento nella mia stanza di studio e coi quali presi a ritessere la tela del Partito liberale italiano, voi tutti ai quali debbo di chiudere questa parte della mia vita portando di essa la visione di cari volti amici e la dolcezza dei ricordi che mi saranno di conforto fino al termine della mia ormai lunga giornata”.
Croce, guardava ai giovani, attento al “travaglio di crescere della gioventù” ed ai problemi attuali della gioventù italiana, scriveva: “Si suol dire la “lieta gioventù”; io la direi piuttosto con una parola che il Petrarca amava, “dolce-amara”. La gioventù non è tutta lietezza. La maturazione ad uomini avviene attraverso ostacoli, incertezze, perplessità, delusioni, angosce, che i giovani stessi devono superare. Noi, esperti delle difficoltà che abbiamo incontrate, possiamo e dobbiamo aiutarli, ma non possiamo sostituirci a loro. Aiutarli non con la costrizione, e neppure con le prediche, ma discretamente, con qualche cenno di quel che possono tentare, con qualche parola di conforto nei loro sconforti.
Nel primo articolo pubblicato da Croce su “La Libertà” (marzo 1944) egli scrive della gioventù italiana: “Forse nessuna generazione è stata così sventurata come quella che venne al mondo negli ultimi anni della grande guerra”. Vuoto di sapere, vuoto di passione, vuoto di volontà furono le conseguenze di un indottrinamento retorico “di addomesticamento e di addestramento, pari a quello che si adopera verso gli animali che l’uomo asservisce ai suoi comodi. In queste condizioni il fascismo ci restituisce la gioventù italiana che noi dobbiamo riabbracciare come figli dopo una lunga separazione da lontano paese e ai quali bisogna comunicare ciò che essi hanno ignorato, per metterli in grado di parteciparne con noi e lavorare con noi, riguadagnando il tempo perduto.

CROCE Giornalista.
Croce, dunque, giornalista, dalla prosa limpida, essenziale. Grande chiarezza, capacità di comunicare il suo pensiero senza orpelli, senza fronzoli.
La scrittura di Croce è, pertanto, espressione della sua personalità, del suo pathos e anche della sua grandezza morale.
Gli articoli su “La Libertà”, da noi raccolti nel Quaderno n. 7 della Fondazione Cortese, ne sono una testimonianza. Seguiranno, me lo auguro, quelli pubblicati su “Il Giornale”, entrambi organi del Partito liberale dal 1944 in poi. Quel “Giornale” si rivelò vivace ed equilibrato, pur nella polemica tra azionisti e comunisti, come ricordò Enrico Mascilli Migliorini nell’introdurre “Il ritorno alla libertà. Memoria e storia de “Il Giornale”. Napoli. 1944-1957”: “Ogni tema era al centro di articoli appassionati, mai retorici, tutti protesi a risvegliare la coscienza democratica del cittadino che doveva ritornare protagonista (ma lo era mai stato?): un assente da troppo lontano”.
Croce continuò il sua magistero morale e polemico in questi articoli, nei quali riaffermava il suo amore per la Patria e la sua fiducia nella ripresa della democrazia nella libertà ritrovata.
Nell’articolo “Interpretazioni storiche” Croce scriveva: “Poichè è verità ovvia che la libertà (che val quanto dire l’attività morale) è sempre combattente, e che l’uomo deve di continuo difenderla contro sè stesso, contro gli impeti e le seduzioni delle passioni ...”
E Croce scrive di amor di Patria, come concetto morale: “la patria, l’amore della patria, l’amore, per noi italiani, dell’Italia, comunque definendolo una parola desueta. Forse il pensiero della patria, l’amore della patria, la carità di patria, tornando vivo e puro nei cuori, renderà più agevole la necessaria concordia nella discordia tra i partiti politici che ora si vengono vagamente delineando e che in avvenire di determineranno in modo più concreto e si combatteranno a viso scoperto e lealmente; perchè tutti essi, come terranno sacra la libertà, loro comune fondamento, così avranno dinanzi agli occhi l’Italia, loro comune affetto, e nel bene dell’Italia troveranno di volta in volta il limite oltre il quale non deve spingersi la loro discordia e nel toccare il quale sentiranno sempre risorgere la loro fondamentale concordia. Così ci hanno insegnato i nostri padri nel Risorgimento, e questa passione e quest’amore della patria è stato cantato dall’ultimo grande poeta dell’Italia, Giosuè Carducci”.
E in un articolo scritto per il New York Times (28 novembre1943) Croce: “Non dirò che cosa sia stata la vita dell’Italia nel periodo che allora si aprì e che è durato oltre un ventennio, perchè chi l’ha vissuta, e ha dovuto di necessità osservarla e parlarne, sia pure per opporlesi, non prova ora altro desiderio che di non pensarvi e di non parlarne più”.
E del fascismo ancora: “Ogni giorno esso doveva fare qualcosa di nuovo o almeno distruggere qualcosa di esistente; e quest’opera era commessa di solito a gente inesperta e ignorantissima e sollecita unicamente di moltiplicare gli impieghi e le sinecure”.
Nel Risorgimento e sul Corriere di Roma del 5 giugno 1944 Croce scriveva il suo saluto a Roma liberata: “E per noi italiani, dico per noi di questa Italia meridionale e delle isole che primi siamo stati liberati, questo ritorno in Roma è anche tal fatto che prende tutto il nostro cuore umano”.

La grandezza di Croce è testimoniata dall’infaticabile lavoro di ricerca in tutti i campi del sapere, la nobiltà del sentimento, la profondità e serenità di pensiero che lo accompagnarono sino alla fine.
E nella collaborazione ai giornali Croce fu sempre pronto ad offrire ai collaboratori preziosi consigli. “In ogni circostanza, da uomo pieno di buon senso, oltre che da grande uomo, Croce veniva spontaneamente incontro alle nostre esigenze giornalistiche e non negava giammai il passo ai nostri cronisti, ai quali anzi si premurava di fornire notizie di prima mano. E non possiamo tacere, d’altra parte, che egli seguiva e leggeva attentamente il nostro foglio e spesso ci faceva pervenire preziosi consigli e suggerimenti e talora elogi per articoli politici o letterari da noi pubblicati”, come ricordava il Direttore de Il Giornale Guglielmo Emanuel.
La coerenza fu una caratteristica della personalità di Croce e del suo essere e della sua altezza morale e spirituale. Emma Giammattei ricorda in un suo bel libro, Il Romanzo di Napoli, “Floriano Del Secolo fu tra gli intellettuali maggiormente penalizzati dalla fascistizzazione della cultura. Estromesso dalla scuola e dal giornale, Del Secolo sarebbe tornato al giornalismo grazie al patrocinio crociano, nel 1944, alla direzione del quotidiano napoletano “Il Risorgimento”, che tenne fino al 1947, prima dei sei mesi napoletani di Corrado Alvaro. Infine si candidò al Senato nelle liste del Fronte popolare. In quell’occasione, era il 1949, Croce gli scrisse una lettera affettuosa in cui però stigmatizzava la scelta politica di chi era stato “sempre liberale” e ipotizzava una nuova dittatura “peggiore assai di quella dei fascisti, che erano anche asini e buffoni; e i nuovi sono programmatici e logici”. E aggiungeva: “Alla vigilia di lasciare il mondo non posso mutare il mio giudizio”.
Croce non amava perdere tempo, si autodisciplinava con un rigoroso piano di studi. Dopo i grandi dolori della giovinezza (la perdita dei suoi cari durante il terremoto di Casamicciola), la depressione e la sofferenza si attutirono con il ritorno a Napoli e con i primi passi su quella via di lavoro metodico, quotidiano, assorbente, che doveva in futuro rimanere come il dato più caratteristico della fisionomia umana e sociale di Croce. Nacquero in lui “fede e speranza”, nella visione della palingenesi del genere umano, redento dal lavoro e nel lavoro.
E’ questo un punto chiave, un fulcro per capire il percorso di Benedetto Croce. Da qui la metodicità e l’impegno di Croce negli studi, nella dedizione alle “amate carte”.
Vivere la propria “vitalità” è per Croce un imperativo morale. Croce non era un uomo “olimpico” ma conosceva l’angoscia e cercava di vincerla con il lavoro quotidiano. Da questa concezione del rapporto tra l’individuo e la sua opera nascono alcuni precetti fondamentali nella morale crociana: la devozione al proprio compito, la fedeltà alla vocazione, il prendere le cose sul serio. e l’amore per le cose, contrapposto all’amor proprio e all’orrore del perdere tempo.
La vita da promuovere è, per Croce, l’insieme di tutte le attività spirituali, quindi promuovere la vita – “viva chi vita crea” – non significa promuovere semplicemente la vitalità come categoria specifica, significa promuovere l’arte, la filosofia, la scienza, la religione, la morale, la politica.
Ma ecco la modernità di Croce, il rapporto tra etica e politica, non è la semplice politica, non è un semplice rapporto di forza, non è un conflitto di interessi, ma anche i valori morali si difendono e si consolidano con la politica, compresa, se necessaria, la forza.
Vorrei invitare i giovani che si accostano alle pagine di Croce di coglierne anche l’altezza morale e spirituale, il senso del dovere, l’impegno costante della sua vita nello studio e nel lavoro, ma anche il rispetto per la vita, il dovere di non disertare.
E voglio chiudere con una digressione. Nei giorni scorsi, rileggendo i commenti sul Corriere della Sera ai Canti di Dante, ho riletto il Canto primo del Purgatorio, “Libertà va cercando ch’è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta”.
La libertà è quella alla cui ricerca è proteso il protagonista della Commedia, cioè Dante stesso, che “libertà va cercando”.
Tutto il poema, dunque, ha come oggetto precipuo e fine supremo il conseguimento della libertà, ma la libertà è libertà-virtù, non certo libertà individuale (cioè libertà-arbitrio). L’intero poema ha in quel verso (“libertà va cercando..”) la sua vera chiave, e libertà ne è la parola emblema.
Noi sentiamo che l’anelito alla libertà per Dante non si distacca molto dal concetto di libertà per Croce.

Amelia Cortese Ardias